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Michael Clayton (2007, regia di Tony Gilroy)

In questa pellicola in cui risalta la performance da attore puro di un George Clooney al meglio quando affiancato da Steven Soderbergh, assieme all’amalgama di un cast abilmente assortito e diretto senza perdere il controllo della scena in favore del melodrammatico, ciò che preme sottolineare a testimonianza della capacità autocritica della società americana – pura fantasia per quella sordidamente giudaica d’europa – è la figura di Karen Krowder (oscar per la miglior attrice non protagonista Tilda Swinton) rappresentante legale della U-North, multinazionale della chimica agraria i cui dirigenti per il piacere degli investitori non mancano di sorvolare consapevolmente sul fatto di produrre sostanze patogene che disperse nell’ambiente provocano il cancro.

Che cosa ella deve rappresentare nell’immaginario collettivo? e di cosa hanno bisogno gli investitori per dormire sereni la notte nonostante ciò che accade? Ciò di cui hanno bisogno le persone ricche (dirigenti o no, governanti o no, finanziatori o no) è di un simbolo, di una rappresentazione che nei momenti di rara crisi le faccia sentire dalla parte giusta della storia (secondo il significato dogmatico e moralista di origine religiosa) nonostante la sofferenza (in tutti i casi) e la morte (in parecchi) distribuita a piene mani ai poveri. Venuta meno la religione degli dei (il dio è morto di Nitcshe), in grande ambasce quella dello stato moderato liberale – una guerra mondiale combattuta dai poveri per l’industrializzazione della morte voluta dai ricchi, una in favore del nazionalismo razzista successiva sponda ideologica per il medesimo fine precedente, una fredda per frenare l’avanzata dell’economia critica, ed innumerevoli altre per procura – appesa a un filo quella della scienza troppe volte accorsa in aiuto dello stato svelando così la sua natura ideologica, emerge col nuovo millennio a garanzia della razionalità dello sfruttamento e dei sacrifici di vite umane la figura della donna, che con l’abbaglio estetico e la prerogativa materna dirime le quistioni morali in favore del potere costituito con la sola presenza scenica. E’ di questo che hanno bisogno, ci dice il film, le persone sia governanti – come nella scena finale quando ella espone i termini del patteggiamento al consiglio degli investitori – che governate – come nella scena iniziale quando ella espone alle masse in un’intervista giornalistica le caratteristiche di sè e dell’azienda. E’ questo quello che ci troviamo di fronte oggi quando dame da compagnia dispongono improvvisate strategie politiche non più nelle sale da thè dei palazzi di corte ma direttamente nelle sale consiliari, negli uffici e negli impianti produttivi sostenute dall’autoritarismo del titolo che loro stesse hanno contribuito a forgiare attraverso matrimoni e gravidanze ricevendo finalmente indietro quella possibilità di incidere sulla vita degli umili a titolo di risarcimento e a vendetta per quanto dovuto sacrificare fin dagli albori della società civile sull’altare della proprietà, dell’autorità e del dogmatismo (in ultima istanza alla divisione dell’umanità tra ricchi e poveri) principi senza i quali la loro vita sulla terra sarebbe stata molto più in pericolo.

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