Se l’espressione artistica del momento estetico è riconoscibile come forza storica operante in maniera soffice nel mondo reale a livello culturale (all’opera, al teatro, al cinema, nella letteratura, etc) per celebrare l’egemonia in atto per il tramite di ciò che è stato, lo stesso non si dica per la repressione estetica del momento critico – fase che gli elementi di classe subalterna necessariamente devono attraversare per cogliere la loro reale posizione nella società civile così da poter esprimere successivamente una volontà contraria agli interessi della classe dominante – la quale invece è una forza attiva operante a livello economico come contraddizione, come freno, come resistenza al movimento e al cambiamento storico.
Ma cosa vuol dire tutto questo?
In altre parole vuol dire che se la ricerca compulsiva del bello nell’arte, sia a discapito del vero (che poi è il certo) sia in rappresentanza di esso, quando lo stato (o società politica) si è consolidato, non ha risvolti etici eccessivi, cioè non determina oltre un certo limite i comportamenti delle persone (sia perchè uno all’opera può non andare così come un altro può non leggere libri o se anche lo fa non è detto che vi riponga la necessaria attenzione e così via discorrendo), lo stesso non vale per la sua estensione anche in politica – e si intenda per politica tutto lo spettro di comportamenti umani aventi finalità economica e quindi essendo l’economia la filosofia della prassi di tutti gli uomini si intenda per politica a questo punto la vita – che invece ha enormi implicazioni etiche in quanto si pone come celebrazione senza tramite di ciò che è ora a protezione di qualunque critica verso il mondo economico esistente (e di conseguenza verso le relazioni sociali strutturate su di esso) rappresentando quindi non più una forza neutra ma una forza attiva resistente al movimento e al cambiamento storico risultando così essere anti storica, perchè anti economica.
E per quale motivo l’estetica è realmente una forza operante in maniera regressiva? Beh, che il bello abbia un costo d’accesso e di mantenimento così elevato da essere riservato a pochi ricchi non è poi una novità dell’ultimo momento così come è difficile sostenere che chi fornisce il bello, conscio della forza attrattiva di ciò che possiede (dell’eccesso di domanda), tra un’ambiente agiato e uno disagiato (economicamente) preferisca il primo (se non nelle scuole per bimbi e nei romanzi per adulti). Allo stesso modo chi è provvisto del bello (per natura, per eredità, per diritto, etc) è improbabile che se ne voglia liberare così come è naturale che se ne voglia accaparrare dell’altro. Ne consegue che è difficile sostenere che una delle due parti possa desiderare che lo stato delle cose cambino e infatti non è così visto che lotta incessantemente affinchè rimangano come esse stanno. Ma se in questo non c’è nulla di strano (o di sbagliato in senso moralistico) il problema nasce quando il bello è posto dalla cultura ufficiale a difesa del privilegio, o facendo da scudo statico (solo come presenza passiva, di immagine) alle critiche di chi è economicamente e socialmente svantaggiato o peggio ancora prendendo il posto della razionalità nel mondo economico produttivo come presenza attiva e direttiva: è in questo campo che il bello diventa anti economico, anti storico e non etico ed è qui che va combattuto ed estirpato.