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Un caso di successo relativo al problema della lingua nazionale

Il più delle volte è complicato riuscire ad esprimere in lingua italiana ciò che realmente si vuole intendere a causa dell’assenza di termini universalmente comprensibili che riescano a trasmettere impressioni ed emozioni e per il tipo di sintassi fortemente stilizzata che ostacola fluidità e semplicità di discorso; è un antico problema di genesi e di impiego, questo della lingua, causa ed effetto di una condizione di scissione storica più ampia tra burocrazia e lavoro, ovvero tra cultura accademica e nazione-popolo nonchè tra arte e vita, tanto da aver contribuito per gli aspetti che le competono a suscitare l’impressione dell’esistenza di due italie una legale e una reale. E’ per ovviare a queste difficoltà e dare senso concreto alle espressioni linguistiche che in letteratura è frequente il ricorso a paragoni con situazioni reali facilmente vivibili da ogni persona e come tali immediatamente riconoscibili; in ciò fu maestro ad esempio il Manzoni del quale è piacevole ricordare quello formulato nel terzo capitolo dei promessi sposi allorquando accosta la condizione umana a quella vissuta dai capponi che nel mentre del viaggio verso la cucina dell’azzeccagarbugli stretti tra le mani di renzo invece di rendersi sereno questo ultimo tratto di vita si guardano bene dall’evitare di provocarsi ulteriori affanni beccandosi pure tra di loro.

E’ questa la difficoltà di comunicazione a cui si va incontro quando si prova a sostenere concetti complessi fra cui quello secondo il quale negli elementi delle classi lavorative è vana la lotta di tipo molecolare (eroico/individuale) affinchè si verifichi l’uscita dalla condizione di subalternità. Tale affermazione così esposta è lontana dalla percezione comune venutasi a creare come propaggine della cultura nazionale di cui il linguaggio ufficiale è testimonianza vivente e abbisogna perciò di essere approfondita nei segmenti che la compongono per poter essere meglio compresa.

Per primo vanno elencate le modalità tipiche attraverso le quali si è soliti condurre la lotta di tipo individuale così da suscitare nel lettore i ricordi di esperienze simili per farlo sentire incluso: 1) la mitologica – poichè tende a creare un mito i cui significati impliciti superano quelli espliciti della realtà corrispondente – esperienza del lavoratore autonomo (agente, terzista, consulente, operaio, artigiano, etc) che a differenza di ciò che crede il senso comune, nel porre rimedio immediato alle necessità urgenti in uscita dal pressapochismo servile, eredita dal lavoratore dipendente non solo lo stato di subalternità (per il periodo di tempo legato all’opera da realizzare), ma a fronte di un monte ore tradizionalmente maggiore lo supera anche in quello di sfruttato – teoria del valore lavoro in economia classica per cui nella trasformazione della materia risiede ciò che dà valore alle merci oggetto di scambio, e del plusvalore in economia critica per cui dalla quantità di lavoro non pagato viene estratta quella quantità di valore in eccesso che genera il profitto aziendale – visto che gli obblighi giuridici e gli adempimenti fiscali a cui è legato, per non parlare delle tradizioni per così dire di costume da rispettare (es: commercialista), lo costringono a riversare nelle casse di burocrati pubblici e privati quella quantità di denaro che apparentemente pensava di aver sottratto alla logica del profitto; 2) il completamento del percorso scolastico negli atenei più esclusivi che nella realtà dei fatti si traduce nel pagamento di costosissime cambiali emesse senza garanzia di riscatto dalle espressioni private dello stato con la speranza un giorno di sostituire la propria autorità a quella dei predisposti che il racconto pubblico sostiene ricoprano certe cariche in seguito a quei percorsi, cosa ancora tutta da dimostrare fuori dai romanzi se non si fa parte della consorteria; 3) la partecipazione al gioco in stile oca del dipendente d’azienda il quale seguendo le tracce offerte a buon mercato nei salotti della cultura borghese ed esaltanti l’impegno, il merito, la costanza e altre simili caratteristiche fiorite nella letteratura d’appendice e poi trasportate nel grande schermo si pone in rapporto etico con la tecnica paradossalmente proprio nel regno del rapporto estetico attirando così verso di se le ire dirigenziali in cerca di un colpevole per il cortocircuito che si viene a creare nel confronto tra le merci (o i servizi) create concretamente trasformando la realtà oggettiva e quelle create astrattamente rappresentando la realtà emotiva con le modalità tipiche della forma artistica.

Secondariamente va poi spiegato per quale motivo sia vana la lotta condotta con quei metodi dimostrando che i successi ottenuti – che pur esistono e sono dei più diversi secondo le attitudini individuali ma che in sostanza sono riconducibili ad una migliore condizione economica tale per cui sia possibile concedersi dell’altro oltre alla garanzia di vitto e alloggio – sono parziali in quanto di stampo eclusivamente salariale e per nulla riguardanti la redistribuzione del potere nei rapporti di lavoro i quali continuano ad essere condotti senza condivisione con il vero protagonista della manifattura, colui che opera manualmente ciò che non vuol dire che non operi anche intellettualmente, per salvaguardare le classificazioni sociali espressione della divisione del lavoro nate essenzialmente sulla base della proprietà dei mezzi di produzione, ciò che la società civile e quella politica sanno benissimo e che continueranno a far pesare benissimo. A testimonianza di ciò si consideri il fatto di come la politica degli alti salari (o di migliori condizioni di vita dentro e fuori i luoghi di lavoro) da fine ottocento in poi sia stata perseguita nei sindacati senza nemmeno porsi di fianco ad essa il problema di come le maestranze possano conquistare più potere all’interno delle fabbriche, alimentando così il sospetto di una corrispondenza di amorosi intenti tra lo strato civile dei sindacati e quello politico dei partiti per spostare costantemente nel futuro la cessione dei poteri pubblici o privati che siano alla nazione-popolo. Non da meno la politica degli alti salari nel nuovo mondo è stato lo strumento attraverso il quale fu possibile accettare le fatiche fisiche e psichiche introdotte con la trasformazione nel nuovo tipo di lavoratore meccanizzato e ammaestrato secondo le teorie del taylor per razionalizzare all’estremo la produzione nelle fabbriche del tipo ford.

La vanità dunque di questa lotta, per essere percepita appieno, abbisogna quindi dell’efficacia che solo le immagini provenienti dal paragone con una situazione reale sanno dare e mi pare che possano essere individuate negli sforzi che un calciatore compie per segnare od evitare un gol allorquando si trovi in evidente regime di var (fuorigiochi, tocchi di mano, situazioni per cui la squadra arbitrale lascia correre il gioco per poi andarlo a rivedere e sanzionare in un secondo momento): come per chi persegue la lotta in maniera individuale così anche per i calciatori in regime di var succede che: a) gli avversari (i competitor) nonostante questo alone di dubbio non saranno compiacenti nel conseguimento degli obiettivi (segnare/evitare gol Vs guadagnare/mantenere clienti) i quali per essere centrati richiederanno una simile quantità di energia nonostante la precarietà della situazione per l’alone di dubbio vigente (var Vs politica); b) le energie spese per centrare gli obbiettivi (segnare/evitare gol Vs mantenere/ottenere clienti) non potranno essere recuperate di colpo per poter essere reinvestite nel breve momento in cui sono necessarie (all’interno della partita Vs all’interno della condizione economica); c) le sensazioni di gioia e di soddisfazione provate ed espresse per aver centrato l’obiettivo (segnare/evitare gol Vs guadagnare/mantenere clienti) e che nondimeno corrispondono ad una quantità relativa di energia liberata dovranno essere riconvertite con relativo aggravio in sensazioni di delusione ed impotenza nel momento in cui il risultati ottenuto verrà annullato (var Vs politica).

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